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Interno/Esterno

mostra pittorica

Agostino Ferrari

In occasione del semestre italiano di
presidenza europea,  l’Istituto Italiano di Cultura
di Zagabria  presenta il progetto espositivo di arte contemporanea
CONFINI, linguaggi, spazi, cose, persone, ideato e curato da Martina Corgnati.

Il progetto CONFINI coinvolge quattro grandi
artisti italiani di fama internazionale, che esporranno, a rotazione, alcune
loro opere nella sede dell’Istituto Italiano di Cultura.

All’interno di questo importante programma
artistico e culturale si colloca la personale di Agostino Ferrari, curata da
Martina Corgnati, che inaugurerà l’apertura di questo semestre espositivo all’Istituto
Italiano di Cultura di Zagabria.

Agostino Ferrari nasce a Milano il 9 novembre
1938. Attratto dal mondo dell’arte sin dall’infanzia, inizia professionalmente l’attività
di pittore alla fine degli anni’50, da allora la sua carriera artistica è stata
in continua ascesa: dopo aver fondato insieme ad altri colleghi il sodalizio
artistico Gruppo del Cenobio,
trascorre alcune stagioni all’estero dove conosce e si confronta con molti
celebri artisti, non arrestando mai la sua personale ricerca e crescita
artistica e giungendo a ricevere, nel 1967, il premio Mirò per il disegno a
Barcellona.

Nel corso degli anni ha continuato
ininterrottamente ad elaborare ad esporre i suoi lavori in diverse città, da
Milano a Dallas, da Zurigo a Barcellona e le sue opere si trovano oggi in molte
collezioni private e pubbliche, italiane e straniere.

 L’artista da anni lavora sul tema del segno,
il “confine” che Ferrari delinea con chiarezza e originalità è quello fra il
segno come elemento significante o come esclusivamente estetico e formale:  componente fondamentale nella storia
dell’astrazione e della cultura artistica contemporanea.

Negli ultimi quindici anni la ricerca di
Ferrari si è allargata anche al “confine” fra spazialità interne al quadro che
il segno, assai dinamico, continuamente attraversa e collega, associando spazi
neri, ulteriori e ignoti, ad altri più prossimi all’esperienza e allo sguardo
dello spettatore.

A quest’ ultimo ciclo di lavori, intitolato
Interno-Esterno, appartengono le venti tele presentate in questa mostra: opere
ad acrilico, tecnica mista e sabbia, cui si uniscono alcuni piccoli progetti
che l’artista usa come punto di partenza nell’esecuzione di ogni lavoro.

Gli esordi
di  Agostino Ferrari si collocano in quella Milano dove, nei primissimi
anni sessanta, si collocano le esperienze di Lucio Fontana, al culmine del suo
lavoro sui “Tagli”, di Piero Manzoni, di Enrico Castellani e di molti
altri artisti concentrati, ciascuno a suo modo, nel reperimento di una
convincente e creativa via d’uscita dall’informale; tutte figure che Agostino
Ferrari frequentava quasi  quotidianamente nell’ambiente di Brera,
divenuto oggi un vero e proprio mito.

E’ lì che
appunto prende avvio la ricerca del giovane artista sul segno, che nelle opere
di quel tempo aveva l’aspetto di un graffito impresso su superfici gessose, una
ricorrenza ritmica, ripetitiva, sensibile ed apparentemente elementare; la
cifra più semplice di un minimale “alfabeto” della pittura. La
pittura, infatti, è proprio il linguaggio al quale Agostino Ferrari e i suoi
compagni del “Cenobio” (il movimento che Ferrari aveva co-fondato nel
1961) non vogliono rinunziare, convinti che il nodo gordiano non vada tranciato
con un colpo di coltello inferto alla tela, o con spettacolari gesti di natura
concettuale, i cui esiti potevano essere per esempio la Merda d’Artista o le
Sculture viventi. Sciogliere quello strano nodo, invece, per Ferrari aveva a
che fare col ridiscendere fino ai fondamenti del fare pittura, riconosciuta
come una delle basi del comportamento e dell’espressività umana, e pertanto
profondamente “necessaria”. Da quei fondamenti ultimi, elementare
grammatica  del gesto, dell’ornamento e della significazione, era
possibile distillare una sostanza ancora pienamente vitale, tanto più vitale
quanto più libera da tutta la ridondanza della rappresentazione, della
decorazione, della geometria.

È una sostanza
antropologica, insomma, un dato espressivo fondamentale quello di cui Agostino
Ferrari va in cerca interpellando il segno; che da quel momento, e per oltre
mezzo secolo, sarebbe diventato il suo referente fondamentale, il suo complice
e la sua risorsa principale nella costruzione di un itinerario creativo fra i
più limpidi, fedeli, emozionanti e significativi dell’arte italiana del nostro
tempo.

Itinerario che,
pur presentando diversi momenti oggettuali in cui il segno si è fatto rilievo,
presenza materiale, installazione addirittura (Teatro del segno) si è consumato
fino a questo momento principalmente entro il confine fisico ed operativo della
superficie pittorica: come si vede ancor oggi nella serie di opere incominciata
dall’artista una decina di anni fa, intitolata Oltre la soglia, in cui
rientrano i lavori presentati in questa occasione.

La soglia, qui,
si potrebbe dire, divide differenti potenzialità di spazio inerenti tutte alla
superficie pittorica; lo squarcio che l’artista pratica nella tela, infatti, è
puramente illusionistico, affonda in profondità virtuali ottenute grazie al
nero assoluto delle sabbie vulcaniche; ed è da lì, da questo spazio ulteriore,
questo spazio-limite infinitamente vuoto o infinitamente pieno che il segno
prende le mosse per avventurarsi al di qua della soglia, nel nostro spazio
visivo abitato e conosciuto, altrettanto illusorio ma reso credibile dalla
presenza del colore, delle ombre, di curvature e sinuosità che sembrano
sfondare il piano limite della pittura. Nell’affrontare queste questioni
l’artista milanese si inserisce in una lunga catena che risale almeno ad
Antonello da Messina,  grande interprete degli spazi pittorici e dei loro
confini, così come più tardi Rembrandt e molti altri. Vengono in mente, per
esempio, quei cartigli protesi oltre al parapetto, che si vorrebbe poter
staccare dal proprio chiodo, o quelle mani appoggiate illusoriamente sulla
cornice dipinta, proprio al bordo di una rappresentazione rivolta al di qua, a
noi. Il problema non è solamente quello, anzi non è proprio, di definire i
codici della rappresentazione, la convenzione rappresentativa che regola il
dipinto al suo interno, sia essa prospettica o altrimenti illusionistica,
cromatica o chiaroscurale. Si tratta di costruire il termine di una relazione,
sempre ambigua ma proprio per questo creativa, fra lo spazio della pittura e il
nostro, fra il qui e l’altrove, senza infrangere il cristallo della superficie
pittorica con un intervento reale, che rompa l’illusione e ne riveli
brutalmente l’ottusa materialità.

Il gioco è
questo. Ed è un gioco che, nel caso di Ferrari, coinvolge anche l’impulso
dinamico del segno, interpretato come metafora del grande viaggio
dell’esistenza e della conoscenza umana: un viaggio che prende sempre le mosse
dall’ignoto, sorgente di scoperte e di esperienze  ancora illimitate, ad
ogni stadio della storia umana.

Il segno,
questo elemento primario che l’uomo ha tracciato sulla terra e sulle pietre per
marcare il confine fra la preistoria e la storia, per lasciare, ad un certo
punto, memoria del suo passaggio, il segno è qui, fedele, propositivo e carico
di energia per proseguire lungo i crinali di un racconto cui Agostino Ferrari
ha sottratto qualunque implicazione narrativa: suo territorio è e rimane
solamente la pittura. Ferrari è convinto infatti che l’arte possa ancora
spalancare orizzonti, immaginare risorse, visioni, senso. E il segno, in
questo, è il suo alfiere,  il suo strumento ed il suo esploratore. Per
tanti anni l’artista ha inseguito la scrittura come gesto di significazione
senza mai scrivere una singola parola leggibile, oggi propone un lembo di
oscurità ai confini del mondo vissuto, un frammento di possibilità indefinita
alla soglia delle cose che non diventa mai semplicemente cosa fra le altre. E
da questo confine dell’immaginario e della visione, il segno sempre fedelmente
ritorna.

Martina
Corgnati